Questi tempi di pandemia ci riportano alla memoria un’altra epidemia che colpì le nostre città, l’Italia e il mondo esattamente cent’anni fa, ci riferiamo alla cosiddetta influenza spagnola. É noto che questa influenza spagnola, come era comunemente chiamata, in realtà con la Spagna non aveva alcun rapporto, si chiamò così perché la Spagna, paese non in guerra (la prima guerra mondiale) non aveva censura sulla stampa e quindi i giornali ne parlarono per primi.

In realtà, i giornali ne parlarono anche da noi, naturalmente non nelle dimensioni odierne, ma in articoli relegati nella cronaca cittadina. Sia perché i giornali non avevano le dimensioni attuali, del resto i più anziani tra noi ricordano buoni quotidiani a otto o dodici pagine, e poi la guerra, la fase finale della grande guerra, monopolizzava le notizie principali.

Per quanto riguarda Rapallo è più difficile ancora trovare notizie. L’influenza colpì Genova e la Liguria soprattutto a partire dalla fine dell’estate del 1918, ma nell’agosto di quell’anno il Mare, il quindicinale locale, aveva sospeso le pubblicazioni per mancanza di carta, le avrebbe riprese nel febbraio successivo, quando ormai il morbo stava scemando.

Per fare una ricerca sui giornali, unica ricerca possibile in questi tempi, dobbiamo affidarci ai giornali consultabili on-line. Per la città di Genova, grazie alla Biblioteca Digitale Ligure, abbiamo la possibilità di consultare il Lavoro. Quotidiano socialista, fondato nei primissimi anni del Novecento, era affiancato dal Secolo XIX, dal Caffaro (vecchio giornale radicale fondato da Anton Giulio Barrili, che era stato garibaldino) e dal Corriere Mercantile. Possiamo poi ampliare il raggio di osservazione con Torino, attraverso l’archivio storico della Stampa, che ha il grande vantaggio di permettere la ricerca usando parole chiave.

É proprio da Torino che già a fine settembre 1918 troviamo i primi riferimenti, il 27 scrive infatti che la malattia che si sta diffondendo è semplice influenza, e tre giorni dopo, senza ulteriori specifiche, avverte che le condizioni di Torino non sono diverse da quelle degli altri comuni colpiti dall’influenza.

A Genova il Lavoro inizia a parlarne il 3 ottobre, in modo indiretto, forse per sottrarsi alla censura, che in tempo di guerra controllava la stampa (alcuni spazi sono bianchi). Sotto il titolo L’epidemia spagnola, suggerimenti e consigli, riporta un foglio diffuso dal comune di Reggio Emilia con le norme da attenersi per la prevenzione e la cura di quella che è definita una influenza epidemica che nella grandissima maggioranza dei casi si ha, senz’altre cure, la risoluzione naturale della malattia. Poi per una decina di giorni, più nulla, mentre a Torino il 4 ottobre la Stampa riportava in una colonna le norme di igiene; apprendiamo così che venivano chiusi i locali da ballo e che i proprietari dei cinema erano disposti a chiudere le sale, per contenere il diffondere della malattia.

Il 15 ottobre, sotto un titolo I bacilli che viaggiano in tram il Lavoro scriveva: Fra le tante misure preventive suggerite da varie competenze mediche allo scopo di limitare il propagarsi dell’epidemia che infesta tante regioni d’Italia, una ha sortito il pieno accordo e si è l’invito a evitare il più che sia possibile l’assembramento delle persone. L’articolista, dopo aver accennato ai cinema, che dovrebbero essere chiusi da tempo, e alla necessità di disinfettare le vetture ferroviarie, si sofferma in particolare sui tram, sullo scandaloso servizio tranviario della nostra città, cui sono esposte al pericolo migliaia di persone, che quali grappoli umani viaggiano anche afferrate alla meglio all’esterno delle vetture, è venuto ad aggiungersi quello della facile trasmissione epidemica a causa dello stretto contatto che devono subire tutti i passeggeri all’interno, specie nell’ora di uscita delle maestranze operaie. Chiedeva quindi una disinfestazione e la messa in circolazione del maggior numero possibile di vetture.

Quattro giorni dopo leggiamo una circolare del Prefetto per combattere la “grippe” (veniva usata questa parola che è allo stesso tempo usata in Germania e Francia per definire l’influenza), dove raccomandava il ricovero ospedaliero per i malati, e quando non sia possibile, l’isolamento in casa, invitava a limitare le riunioni, le conferenze, le funzioni religiose.

Intanto il giornale riportava notizie di persone decedute, e di qualche altro che, al sorgere dell’influenza, si toglieva la vita.

Il 30 ottobre, la guerra stava per terminare e i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza, per citare il Bollettino della Vittoria diramato quattro giorni dopo, il Consiglio Provinciale Sanitario faceva sapere che nella maggior parte dei comuni nei quali la malattia infierì le condizioni sanitarie o sono ritornate normali o si presentano gradatamente migliorate, che anche nella città di Genova l’epidemia risulta dal 15 ottobre in poi quasi stazionaria. Era proprio così? Forse era così, lo vedremo con altri dati, ma non era ancora la fine.

Anche in questa situazione, c’era di cercava di trarre profitto, leggiamo sempre sul Lavoro la pubblicità di una Pozione Arnaldi che presa un paio di volte alla settimana immunizza l’organismo, previene l’infezione. Non era il solo, a Nizza un certo Dottor Gillard informava che vaccinava contro la Grippe espagnole (dal Petit Niçois del 2 ottobre).

Intanto sulla Stampa il capo dell’Ufficio Igiene del Comune (di Torino) rassicurava che nessun caso era tenuto nascosto, che oltre ai morti pubblicati dai giornali non ve ne erano altri.

Eravamo alla vigilia dell’armistizio che avrebbe concluso la Grande Guerra, e i giorni seguenti le pagine dei giornali, anche le cronache locali, sarebbero stati dedicati quasi solo a questo avvenimento. Anche perchè in effetti il consiglio sanitario aveva ragione. Però l’influenza sarebbe tornata.

Un modo per avere una rapida idea di quante persone portava al decesso è la consultazione della rubrica Stato Civile sul Lavoro, basta una rapida occhiata alla lunghezza della rubrica per rendersene conto. Una linea comprendeva, in media, un decesso; ebbene, a gennaio del 1917 (quindi in tempi normali) la rubrica dei morti era composta da una quindicina di righe (cioè, a Genova – considerata la città tra il Bisagno e la Lanterna – c’erano una quindicina di decessi al giorno), a volte erano un poco di più. A inizio ottobre del 1918 le righe salirono a oltre sessanta, e continuò con queste dimensioni fino a fine novembre, quando scese a quaranta righe, per risalire a sessanta subito dopo e restarci per tutto dicembre. É solo a febbraio che troviamo di nuovo una quarantina di righe, mentre a marzo siamo di nuovo a venticinque, i valori di due anni prima.

Anche il Mare, nella primavera del 1919, ci conferma che l’epidemia è ormai finita, infatti in qualche numero si trova la rubrica Stato Civile con i morti per Rapallo, che sono veramente pochi, e tutti anziani. Perchè l’epidemia, a differenza da quella che stiamo vivendo, colpì particolarmente i giovani. I soldati che tornavano dalle trincee si ammalavano. A Genova molti fra i  morti furono prigionieri di guerra austro-ungarici, detenuti in un campo nel basso Piemonte. Ammalati, venivano portati nell’ospedale di San Martino, dove morivano. Entravano nell’elenco pubblicato sul Lavoro, sono riconoscibili per il nome, tedesco o ungherese, la giovane età e la professione indicata come “prigioniero di guerra”. Venivano poi sepolti in un campo apposito del cimitero di Staglieno, che è stato restaurato in occasione del centenario della Grande Guerra dall’Associazione Nazionale Alpini con la collaborazione della Croce Nera austriaca (l’equivalente della Croce Rossa).

Anche a Rapallo e a Zoagli ci furono diversi militari morti per la malattia, alcuni erano feriti, in convalescenza negli alberghi trasformati in ospedali.

Per concludere, un ricordo personale, mia nonna mi raccontava di quando si era ammalata di spagnola, come la chiamava. Non sapeva una data precisa ma da un elemento è presumibile che si trattasse proprio dell’autunno del 1918, infatti raccontava che era quando allattava suo figlio, mio padre, che era nato nel febbraio di quell’anno. Si mise a letto accudita dal marito, che come unica cure le somministrava decotto di viole. C’era l’obbligo della segnalazione all’autorità sanitaria e del trasporto all’ospedale, ma naturalmente il marito se ne guardò bene. “Chi veniva portato all’ospedale moriva” mi diceva.

La casa era abbastanza lontana dalle altre, ma un vicino capì che forse c’era qualcosa che non andava e chiese al marito se la moglie stava bene. “Benissimo” rispose.

Infatti guarì, il figlio non si ammalò. Ma mia nonna evidentemente attirava l’influenza, perché nel 1957 si prese anche l’asiatica; superò anche questa.

La foto di copertina raffigura Rapallo nei primi anni del novecento (collezione Sergio Schiaffino)