La lezione che deve emergere in questi ventiquattro mesi seguiti al crollo del Ponte Morandi, prepotente nella sua limpida logica, è quella del dovere della custodia.
Custodia dei beni comuni (che in questo caso avrebbe garantito la sopravvivenza di quarantatré vite) che troppo spesso sono sfruttati senza obbligo di manutenzione. Custodia di valori collettivi che appartengono a tutti e che quindi, per un mala concezione troppo diffusa nel nostro paese per essere accettabile, sono di nessuno. Un prezzo politico ed economico che facciamo fatica a riconoscere.
Custodire è un atto d’amore, un processo culturale, un sigillo di civiltà prima ancora che valenza di buona amministrazione. Una pratica, non una opzione, che neppure la realizzazione di una opera importante come il nuovo ponte può cancellare. Modello Genova si dice evocando una nuova filosofia di azione, sintetizzando in slogan la prassi da seguire in futuro. In quello slogan si legge l’esaltazione di un modello straordinario che si vorrebbe ordinario, fino a farne scuola. Ma che rappresenta proprio il fallimento della normale capacità di amministrazione perché è l’emblema dell’incapacità di gestire, salvaguardare – appunto custodire – propria di uno Stato capace e in coscienza, consapevole, in grado di agire secondo procedure limpide e in tempi compatibilmente scorrevoli. Un messaggio che distorce quello del Modello Genova, troppo spesso reiterato in questi scorci elettorali. Un messaggio che soffoca quello che dovrebbe essere la lezione prima, preponderante, il segno distintivo e duraturo del dovere della custodia del bene pubblico a tutti i livelli di amministrazione.
Abbiamo tutti plaudito al gran lavoro fatto in questi due anni, abbiamo tutti ammirato con sollievo e soddisfazione il nuovo viadotto inaugurato qualche giorno fa. Tutti noi che abbiamo solcato il Morandi ogni giorno, noi che solo il caso – o il destino, il cielo se volete – ci ha permesso di traghettare indenni il vuoto, consegnandoci sicuri all’altra sponda un numero indefinito di volte.
Il rammarico – che preme e opprime – è ascoltare il peso di una iterante narrazione volta all’incasso, che vuole superare senza imparare e che, dunque, richiama una memoria formale, certamente sincera, ma non sostanziale. Il rammarico è ascoltare un vociare arrembante, tuttavia incapace di una riflessione profonda – pubblica, intellettuale, onesta, responsabile – che non può essere affidata solo a chi dovrà giudicare.
Memoria e custodia sono in rapporto simbiotico e rappresentano una vecchia lezione che nella sfera del collettivo troppo spesso facciamo fatica a fare nostra. Per volontà o dolo, distrazione o approssimazione – o peggio per interesse – qualunque sia lo scopo, distrarre la memoria e abbandonare la custodia è un errore incolmabile. Che, come suggeriscono le cronache che incombono, in questo paese non vale solo per la Storia.