Non ci sono motivi ragionevoli per confermare la riforma costituzionale che intende tagliare il numero dei parlamentari con il fine (non) ultimo di ridurre i costi della politica.

Un fine apparentemente nobile. Ma le cose non sono come sembrano.

Lo slogan che l’accompagna è ben apparecchiato (Tagliamo i parlamentari, tagliamo i costi!) e raccoglie sentimenti anche molto distanti tra loro. Dagli anti casta, agli allergici al Parlamento, dai teorici del suo superamento, fino ai supporter del presidenzialismo, dagli equilibristi ai leaderisti questo referendum condensa spontanei sentimenti contro il palazzo e calcoli politici più raffinati.

Con la vittoria del sì, il risparmio che si otterrebbe per le asfissiate casse pubbliche si quantificherebbe in una cifra che evocativamente corrisponde ad un caffè a testa (all’anno), in percentuale lo 0,00qualcosa del bilancio dello Stato. Dunque nessuna utilità, neppure cosmetica, per le finanze pubbliche. Un’inutilità che però ha un costo elevato: con un’ulteriore perdita di prestigio e rappresentatività del Parlamento (le regioni più piccole come la Liguria sarebbero oltremodo penalizzate); con la riduzione della sua già pregiudicata centralità; con l’ulteriore plastificazione dei partiti, ridotti sempre più a loghi remoti dove serviranno ancor meno la partecipazione, la formazione, la selezione, la competenza e dove – per contro – sarà sempre più premiata la sola capacità di raccolta del consenso che oggi, grazie alla tecnologia della condivisione, si riduce ad uno sterile, talvolta penoso, esercizio estetico.

La vittoria del sì accelererebbe un fenomeno già in atto: un Parlamento, che già oggi non è rappresentativo della complessità del paese e che viene eletto senza che i cittadini possano esprimere la propria preferenza per un candidato, vede ridursi i suoi membri. La già compromessa qualità democratica che lo avvolge ne risentirebbe ulteriormente. La casta – meglio chiamarla con il nome che ne rende il senso, oligarchia, fatta di quei pochi che decidono incondizionatamente davvero chi dentro e chi fuori – si ritroverebbe ulteriormente rafforzata.

Il referendum poggia su una nesso causale semplice (meno parlamentari, meno costi). Ma così facendo nasconde il vero quesito: quanto costa l’inefficienza della politica?

Quanto costa la lentezza della Giustizia? Quanto costano le infrastrutture che non ci sono o che sono mal gestite? Quanto costa l’inefficienza e la lentezza della Pubblica Amministrazione? E quanto ci penalizza il gigantesco l’ipertesto legislativo, contorto, ambiguo (talvolta contraddittorio), un mostro di oltre centomila tra leggi e decreti (per contare solo il livello nazionale) molti dei quali incomprensibili? E quanto costano le catene di comando annodate e certe responsabilità farraginose, paludose, sfuggenti? Quanto costa la mancata lotta all’evasione fiscale e, a monte, il cagnesco rapporto tra Stato e cittadini? E quanto costa la corruzione? E le mafie che sarebbero vincibili se isolate culturalmente e politicamente?

Esemplificazioni che chiariscono una sensazione che con l’avvicinarsi del voto si delinea sempre più netta: il referendum, e la riforma a monte, sono una cortina di fumo intorno ai veri quesiti non risolti.

Ma c’è dell’altro.

La Costituzione non si ribalta con sortite scoordinate perché è un corpo composito con riflessi articolati ed effetti a cascata. E’ un equilibrio. Riformarne un ingranaggio senza considerarne le conseguenze o demandando a leggi ordinarie che possono facilmente cambiare – quale è appunto il taglio lineare dei parlamentari – è un errore di principio.

E’ opinione diffusa che la seconda parte della Costituzione vada riformata garantendo democraticità ed efficienza. Una sintesi non facile da trovare perché richiede una visione che va oltre gli interessi di breve orizzonte. Ma è qui, dove si è fallito già troppe volte, la prima prima, vera grande risposta ai bisogni di modernizzare, efficientare e rendere più equo questo Paese.

La riforma che siamo chiamati a confermare o respingere è un azzardo velenoso. Che va nella direzione sbagliata perché nasconde le reali questioni sul tappeto. Che la vittoria del sì non farebbe altro che amplificare.